Negli ultimi anni l’interesse scientifico rivolto all’autolesionismo si è ampliato; l’elevata prevalenza di questo comportamento in adolescenza ha spinto ricercatori e specialisti verso l’esplorazione delle cause all’origine dell’autolesionismo e l’individuazione di modelli di intervento efficaci.
L’autolesionismo inferto senza intenzione suicidaria (Non-Suicidal Self-Injury) è un comportamento volto a farsi del male senza lo scopo di morire. Alcune forme frequenti sono tagliarsi, bruciarsi, graffiarsi, picchiarsi, mordersi, pizzicarsi e strapparsi i capelli. La prevalenza dell’autolesionismo in adolescenza sembra raggiungere il picco tra i 15-16 anni e declinare verso i 18 anni (Plener et al., 2015).
Le ricerche sembrano concordare sul fatto che mettere in atto ripetuti atti di autolesionismo sia associato ad alti livelli di abuso di sostanze, aumento del rischio di tentativi di suicidio e di sviluppare un disturbo borderline di personalità da adulto (Nakar et al.,2016, Groschwitz,2015).
Nel DSM-5 (2013) l’autolesionismo è definito solo come un sintomo del disturbo borderline di personalità, anche se nella sessione 3,dedicata alle condizioni che richiedono ulteriori studi, viene considerata la possibilità che l’autolesionismo senza intenzione suicidaria (NSSI) possa essere considerato un’entità diagnostica indipendente.
Il primo studioso ad effettuare una classificazione dei diversi tipi di autolesionismo e ad indicare una strada per il trattamento fu lo Psichiatra americano Armando Favazza. Dopo la pubblicazione del suo libro “Bodies Under Siege: Self-mutilation in Culture and Psychiatry” nel 1987, si accese l’interesse della comunità scientifica e clinica e si aprì il campo alle ricerche sull’argomento. Si passò dal considerare l’autolesionismo come un tentativo di suicidio a prendere in considerazione la funzione maladattiva ma allo stesso tempo di auto- aiuto che può assolvere. Questa nuova lettura permise di sviluppare nuove prospettive di trattamento che assumevano come condizione di partenza l’esplorazione delle funzione di questi comportamenti per poi individuarne altri più adattativi che potessero essere utili ad affrontare la sofferenza emotiva.
Alcune funzioni che sembra assolvere l’autolesionismo sono:
- Regolazione emotiva, «mi serve per fermare il dolore emotivo»
- Comunicare, « così posso mostrare la mia sofferenza agli altri»
- Punirsi, « avere ciò che merito»
- Purificazione, « così mi pulisco dalla sensazione di sporco che mi sento addosso»
- Uscire da uno stato dissociativo, « mi aiuta a far sì che io venga fuori dal sogno in cui mi trovo»
L’alta prevalenza del comportamento autolesionista in adolescenza sembra essere correlata ai cambiamenti dello sviluppo del cervello specifiche di questa fase della vita. In adolescenza la corteccia prefrontale è interessata da un processo di ristrutturazione determinato dalla riduzione del numero dei neuroni e delle sinapsi, fenomeno che viene definito “potatura”, e dalla formazione della mielina. L’area limbica inoltre presenta una maggiore attività facendo sì che le emozioni possano emergere più repentine e intense con un ridotto effetto regolatore della corteccia prefrontale (Casey at al., 2008).Le ricerche riportano come fattori di rischio dell’autolesionismo: essere di sesso femminile, essere vittima di bullismo, orientamento non eterosessuale, esperienze sfavorevoli infantili (ACE) come trascuratezza, abuso sessuale e fisico, deprivazione, critica o disinteresse genitoriale (Brown & Plener, 2017).
Un altro elemento da non sottovalutare è il contagio attraverso il web. I social network sono oggi un mezzo usato dagli adolescenti anche per condividere il dolore e la sofferenza e da questa condivisione possono partire pratiche di emulazione, come avviene nel caso dei ragazzi che aderiscono al movimento emo. Attraverso i blog e le community gli emo si cercano e si riconoscono, pubblicano foto, video e post che decantano la pratica autolesionista del procurarsi tagli sulle braccia e aspirano al suicidio come soluzione ideale rispetto al malessere che vivono nel relazionarsi con gli altri.
Dall’analisi accurata di alcuni studi emerge che i primi 100 video di YouTube con un contenuto autolesionista sono stati visti oltre due milioni di volte, il 90% di video mostrano fotografie e il 28% mostrano la messa in pratica (Lewis et al., 2011). Esaminando il database “Yahoo! Answers” è emerso che la maggior parte delle domande relative a comportamenti autolesionisti (30,6%) è stata inviata con l’intento di trovare una validazione a questi atti (Lewis et al., 2012).
Sembra però che il web sia anche un mezzo che gli adolescenti utilizzano per chiedere aiuto e per ridurre la sofferenza emotiva (Brown & Plener, 2017). In virtù di queste richieste esistono blog e siti che accolgono e orientano verso interventi specialistici. Un portale italiano dedicato allo studio e all’informazione sull’autolesionismo è il SIBRIC (Self Harm & Self Injury), nel quale esiste una sezione Help & Support.
Il Butterfly Project prevede attraverso un blog una raccolta di storie di autolesionismo e invita gli adolescenti a disegnarsi sul corpo una farfalla ogni volta che sentono l’impulso a farsi del male e a condividere sul blog le immagini delle farfalle disegnate.
Le terapie dimostratesi efficaci per il trattamento di adolescenti con autolesionismo sono la terapia dialettica comportamentale per adolescenti (DBT-A), la terapia cognitivo comportamentale (CBT) e la terapia per adolescenti basata sulla mentalizzazione (MBT-A). Nessuna terapia farmacologica viene indicata dall’American Food and Drug Administration come efficace per trattare l’autolesionismo (Brown & Plener, 2017).